Sab 27 Luglio, 2024

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Alita: Angelo della Battaglia – Recensione

Lo stigma che perseguita da anni gli adattamenti hollywoodiani di manga (e videogiochi) è, in assoluto, uno dei più funerei e difficili da mandar via. Sarà forse Alita, la cyborg frutto della fantasia di Yukito Kishiro a rompere la maledizione?

La recensione di Alita: Angelo della Battaglia, il film di Robert Rodríguez e prodotto da James Cameron

Per circa 20 anni un cosiddetto “pet-project” del regista e produttore di Titanic e Avatar, Alita ha a lungo lambito ed accarezzato la possibilità di diventare un movie franchise USA, trovando però sulla sua strada una serie infinita di rifiuti e intoppi.

Finalmente, dopo una battaglia con la Fox per ridurre il budget al di sotto dei 180-200 milioni di dollari (battaglia persa dalla Major), Alita: Angelo della Battaglia ha ricevuto il semaforo verde, con Robert Rodríguez in cabina di regia e James Cameron come produttore e sceneggiatore.

Poi venne il primo trailer.

 

Inutile dire che le primissime reazioni del pubblico, dopo il trailer, furono piuttosto stranite.

Perché quegli occhi? D’accordo, sono al 100% occhi da “anime” ma su di una persona in carne ed ossa (più o meno) sono terribilmente strambi e rischiano di distrarre dal resto del film!

Per fortuna, dopo aver visto la pellicola, posso dirvi che gli occhi di Alita (che nel manga si chiama Gally) sono decisamente l’ultimo dei problemi.

Corpi e super corpi, femminilità e forza, potenziali inespressi e sprecati

Il film si presenta sin da subito come appartenente ad un certo tipo di filone negli adattamenti dalla carta “disegnata“.

Un filone già percorso senza grandissimo successo da Zack Snyder nei suoi adattamenti DC e Dark Horse, ovvero il riprendere vignetta per vignetta un fumetto e trasporre le suddette in fotogrammi filmici.

Qui Rodríguez compie lo stesso sforzo, andando anche a rigirare sequenza per sequenza molte delle scene del primo OAV.

Esempi emblematici sono la battaglia nel vicolo coi primi villain cyborg e la scena del cane e Grewishka.

Non si tratta di una pratica errata in modo intrinseco, se supportata da una buona narrazione e da prove attoriali di livello, oltre che da una palese volontà di sviscerare le tematiche che quelle stesse scene suggeriscono.

In Alita: Angelo della Battaglia, invece, molto di quello che vorrebbe emergere rimane a malapena sul pelo dell’acqua.

Un interessantissimo discorso legato alla femminilità forte di una giovane supereroina viene annacquato, dopo averci offerto su un piatto d’argento le sue immense potenzialità (penso in particolar modo alla frase “Fanc*lo la tua pietà“, dal deragliare di una insulsa love story con un ancor più insulso love interest.

La tematica del transumanesimo/postumanesimo che permea tutta la narrazione, invece, non viene mai del tutto trascurata, sia per ovvi motivi visivi che per -limitati- meriti artistici; non è però mai approfondita, molte delle scene che potrebbero darci la dima di cosa davvero significhi essere più che umani, mantenendo però un’interiorità pre-cyborg, vengono sprecate in malo modo.

Alita è un film che, per chi come me stravede per il concetto di transumanesimo, riesce contemporaneamente a fomentare tali ideali e ad affossarne il contenuto intrinseco.

A questo punto, forse, il tanto vituperato (non da me) Ghost in The Shell di Rupert Sanders andrebbe rivalutato come “buon” adattamento USA di una concettualità fortemente nipponica.

Basta che a nessuno venga in mente di paragonarne l’arte con quella del capolavoro del 1995 di Mamoru Oshii.

La narrazione orizzontale di un manga VS due ore molto verticali di pellicola

Anche se il film di Rodríguez si occupa, come già accennato, sostanzialmente di adattare i due OAV del 1993, esso attinge a piene mani anche dalla narrazione orizzontale del manga (penso ad esempio a tutta la “deriva” dedicata al Motorball), mostrando in breve tempo la “corda”.

Adattare un manga in due ore di film è estremamente difficile, data la diversità profonda nel modo di raccontare una storia che le due forme espressive hanno.

In un manga, che comunque rimane una storia a capitoli ma autoconclusiva, il respiro della narrazione si stende nel tempo, mentre in un film (anche se pieno di riferimenti a possibili seguiti) la storia deve giocoforza proseguire verso l’alto.

In Alita infatti tutto è teso verso l’alto: i protagonisti che continuano a guardare verso Zalem, l’azione, sempre più frenetica, i set pieces disordinati e torreggianti.

Rodríguez e Cameron cercano di imbastire una trama inutilmente complicata, affastellando un plot dopo l’altro e attingendo a piene mani sia dal manga che dagli OAV ma, nel processo, si “dimenticano” di dedicare il dovuto tempo allo sviluppo di ognuna di queste sottotrame; le quali finiscono per risolversi banalmente in pochi minuti o per trascinarsi senza troppe cerimonie verso una (improbabile) serie di sequel.

La protagonista della pellicola, Alita, alterna momenti eccezionali a vere e proprie sequenze piene di “cringe”

Ma la cosa più importante, quella che avrebbe dovuto funzionare senza se e senza ma, è proprio lei: Alita. E ci riesce?

Interpretata dalla trentaquattrenne Rosa Salazar e da una tonnellata di CGI, la bella cyborg alterna, come detto, momenti di grande spessore action da vera supereroina, a imbarazzanti sorrisetti e risatine sottécchi quando è impegnata nella ridicola sottotrama romantica del film.

Riesce difficile però, pur con tutti i suoi enormi difetti, non appassionarsi almeno esteticamente a lei.

Le sue movenze, il character design e la regia straordinaria delle sequenze action, ribaltano parzialmente il giudizio nei confronti della pellicola in generale, almeno nei momenti in cui ad Alita è concesso di essere Alita.

Rodríguez compie una serie di miracoli nel coreografare e dirigere le complicate scene d’azione

In un periodo storico che, per fortuna, si sta sempre più affrancando dalla regia convulsa à la Micheal Bay delle scene d’azione in cui è presente molta CGI, Rodríguez e soci compiono un ulteriore passo avanti tecnico.

Le scene d’azione di Alita: Angelo della Battaglia sono un balsamo per gli occhi: rapide, chiare, curate, coreografate con delizioso gusto action e dall’immenso impatto visivo. Esse stesse sono uno dei motivi per i quali questo film non è, alla fine, un completo disastro.

Eppure vengono affossate da una recitazione sub-par, da dialoghi spesso e nella migliore delle ipotesi banali (se non direttamente ridicoli, come il “discorso motivazionale” uscito dal nulla che Alita fa nel bar dei cacciatori di taglie) e da un villain che viene solo suggerito e mai veramente “assaggiato“.

Questa può essere una tattica vincente se si hanno le spalle grosse e un progetto ciclopico già a metà strada, non quando il film che stai creando è una gigantesca scommessa da quasi 200 milioni di dollari.

Resta da vedere dove porterà questa scommessa, sulle cui spalle si erge un intero nuovo ed ipotetico filone di adattamenti.

Da tempo Hollywood sta infatti cercando di capire come “crackare” il codice dei manga/anime nipponici ed offrirli al grandissimo pubblico senza rischiare crimini contro l’umanità come Dragonball Evolution.

Rodríguez e Cameron (che, ricordiamolo, si innamorò del manga grazie a Guillermo Del Toro) sembravano due nomi sui quali puntare forte, ma la realtà dei fatti è che, sebbene il prodotto finale dei loro sforzi non sia né un film orribile né una completa perdita di tempo e soldi, la cara vecchia Città delle Stelle è ancora piuttosto lontana dal capire come prendere la poetica nipponica e trasporla con successo sul (loro) grande schermo.

Peccato, sarà per la prossima(?) volta.

Infine un pensiero che spero qualcuno possa ascoltare e prendere in considerazione: basta, davvero basta, ai doppiatori “vip” italiani. Non aggiungo altro.

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