Tutto nacque da una pizza senza una fetta

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Non tutti conoscono l’ideatore del famoso Pac Man, il designer di videogame giapponese Tohru Iwatani. Era uno dei grandi ospiti alla Games Week di Milano, che ha chiuso i battenti domenica 25 ottobre. Intervistato durante la conferenza, Iwatani ha raccontato al pubblico come gli è venuta l’idea di uno dei più famosi video game della storia.

Pixel

Recentemente è anche apparso come personaggio nel film, Pixels, dove è stato interpretato dall’attore Denis Akiyama.

“Mi somiglia a tal punto che, quando lo incontrai per un pranzo, ci scambiarono per gemelli”

Di seguito riportiamo parte dell’intervista:

Partiamo dall’inizio. Per una volta la storia dei videogame è passata per un pezzo di cultura italiana, anche se culinaria. Si dice che le venne l’idea di Pac-Man guardando una pizza priva di una fetta appena tagliata.

Esatto. Guardai quella pizza e vidi quel che poi sarebbe divenuto Pac-Man. Ai tempi era pieno di videogame nelle sale giochi dove andavano in scena invasioni spaziali e dove si sparava a tutto e tutti. Io invece miravo a fare un gioco grazioso, semplice, che piacesse alle donne e che potesse esser giocato dalle coppie. E con un concetto di base, il mangiare. Avevo in testa degli elementi, ad esempio i cibi speciali che Pac-Man divora e che gli permettono di diventare così forte da dar la caccia ai fantasmi. Hanno la stessa funzione degli spinaci per Braccio di Ferro. Ma la loro è una relazione simbiotica anche se conflittuale, la stessa che lega Tom a Jerry”.


Era a cena con amici?

“No, ero solo. Ero uscito per mangiare una cosa. Ed è stata una fortuna. Fossi stato in compagnia di fette da quella pizza ne sarebbero state tagliate diverse e io non averi avuto quell’intuizione”.

Perché Pac-Man mangia puntini?
“Sono biscotti, lui ama i biscotti. E li amano anche i fantasmi, per questo lo inseguono: non vogliono che si mangino i loro biscotti. Questa è la base. Ma al tempo pensai anche che fare un gioco dove si era sempre inseguiti non era divertente. E’ una condizione piscologica scomoda a lungo andare e questo mi ha portato all’idea di creare le condizioni affinché i ruoli in certi momenti si potessero invertire”.

Come mai dei fantasmi? Potevano essere zucche, ufo, canguri…
“Pac-Man è una bocca stilizzata. Serviva qualcosa di altrettanto iconico, che tutti capissero, ma che non facesse davvero paura”.

Potesse tornare indietro di 35 anni, cambierebbe qualcosa?
“Guardando indietro credo che le meccaniche di fondo e il design del gioco siano molto ben bilanciati. Non c’è nulla che vada aggiunto e nulla può essere sottratto. Ho lavorato per sei mesi sull’equilibrio fra tutti gli elementi del gioco. Negli anni 80 e 90 c’era un certo spirito alla Namco: lo sviluppo dei giochi continuava finché tutti non erano convinti della qualità, mettendo in secondo piano la data prevista per la fine dello sviluppo. Nell’industria attuale dei videogame invece a dominare sono budget e deadline che vanno rispettate a tutti i costi. Non a caso ne escono tanti incompleti”.

Tohru IwataniPac-Man è apparso in tantissimi giochi, e non solo come protagonista. Qual è quello che preferisce?

“Pac-Land e Pac-Mania. Il primo perché ha creato un genere, quello dei giochi di azione a scorrimento orizzontale. Ricordo che Shigeru Miyamoto una volta mi disse che fu una delle principali fonti di ispirazione per Super Mario Bros. Pac-Mania invece fu il primo dove c’era un Pac-Man in grafica tridimensionale. Che poi è il modello per il grande Pac-Man che compare nel film Pixels”.

Lei dal 2008 ha abbandonato lo sviluppo di videogame e ora insegna alla Tokyo Polytechnic University.
“Diciamo che non ho abbandonato i videogame del tutto, insegnando Teoria dei giochi. E nei miei corsi si parla di come alcuni giochi “seri” possono aiutare a costruire una società migliore. Il mondo dei videogame si sta spostando su smartphone e tablet che sono racchiusi all’interno di schermi di dimensioni limitate, così come le idee dalle quali nascono i giochi che li affollano. Noi stiamo sperimentando invece strade diverse con un nuovo dispositivo indossabile che si chiama GamingSuit. Combina ad un tempo movimenti e controller di gioco, aprendo la porta a nuove forme di interattività e di espressione artistica. Non so se avrà successo, a di certo nessuno ha mai tentato una strada del genere”.

Fonte: Repubblica.it