Babylon: la recensione della folle babilonia di Chazelle

babylon film Damien Chazelle

Dopo lo sfolgorante esordio nel 2014 con Whiplash e il successo, due anni più tardi, di Lalaland, Damien Chazelle torna sugli scudi con Babylon, film cacofonico, casinista e a tratti surreale, in completa antitesi con il quasi minimalista First Man, ultimo film del regista statunitense.

Già dall’inizio il film tenta di mostrare quello che intende fare: la prima sequenza mette in scena il trasporto di un elefante da un parcheggio di Los Angeles, che notoriamente non pullula certo di pachidermi, ad un party selvaggio ad Hollywood. Spaventato, l’animale si lascia andare (proprio nella maniera che state immaginando) ai danni dei suoi trasportatori e anche sulla telecamera, sfondano la quarta parete con le feci elefantiache. Ecco come si presenta Babylon ai suoi spettatori.

Uscito nelle sale italiane il 19 gennaio, negli Stati Uniti è stato un flop di pubblico e critica, anche in relazione al budget di produzione che si aggira intorno ai 100 milioni di dollari. Il tentativo di Chazelle di raccontare la storia della mecca del cinema nei ruggenti anni ’20, attraverso il passaggio dal muto al sonoro, cercando di dichiarare l’amore e forse anche l’odio per la settima arte, sembra non essere andato a buon fine.

Un’infinita babilonia

Dalla durata monstre di 189 minuti, titoli compresi, rispettando la tendenza sempre più diffusa di realizzare film molto lunghi, Babylon è una vera e propria babilonia, non nel senso della città della Mesopotamia, ma intesa come sinonimo di caos e disordine. Nel film si susseguono una serie di immagini, suoni e personaggi che però appaiono tutti scollegati fra loro.

Se c’è un aggettivo per descrivere questo film è sicuramente “troppo”: troppo confusionario, passa da uno stile all’altro, da un ritmo frenetico a momenti con il freno a mano tirato, troppo lungo, si poteva evitare quasi un’ora di film, troppo sconclusionato, vari personaggi appaiono e scompaiono durante il film e forse troppo ambizioso.

Ispirandosi al libro scandalo Hollywood Babilonia di Kenneth Anger, dove vengono messi a nudo gli eccessi e i vizi delle star hollywoodiane negli anni ’20 prima dell’avvento del codice Hays, Damien Chazelle ci porta all’interno di quel mondo, fatto di orge, alcol e stupefacenti, creando una cacofonia di immagini con un ritmo troppo affrettato, dovuto anche ad un montaggio serrato, e una serie di trame e sotto trame aperte e non del tutto chiuse.

Il plot ruota intorno a tre personaggi principali: Nellie LaRoy, interpretata da Margot Robbie, Manuel “Manny” Torres, che ha il volto di Diego Calva e Jack Conrad, interpretato da Brad Pitt. L’incontro fra i 3 avviene al party con il già citato elefante: Manny è un tuttofare, al servizio di un produttore di Hollywood, è lui che ha l’ingrato compito di trasportare l’animale alla festa (ma non è lui la vittima della cascata marrone), dove incontra Nellie, sedicente Star cinematografica, vivace ed esuberante, per usare degli eufemismi, e probabilmente già ubriaca o fatta, o tutti e due. Al party non può mancare lo scafato, e alcolizzato, divo del cinema muto, Jack Conrad. Ma non è finita qui, alla festa/orgia ci sono anche la giornalista gossippara Elinor St. Jhon (Jane Smart), il jazzista di colore Sidney Palmer (Jovan Adepo), una cantante conturbante orientale, Lady Fay Zhu (Li Jun Li) e persino il bassista dei Red Hot Chili Peppers, Flea. Tutti questi personaggi secondari ci accompagneranno più o meno per tutto il film, entrando e uscendo di scena senza lasciar traccia.

L’effimera Hollywood di Babylon

Babylon vuole raccontare le storie di Manny, Jack e Nellie, ma anche quelle di Fay Zhu, di Sidney, del criminale James McKay (un insospettabile Tobey Maguire) che trascinerà Manny in una sorta di inferno dantesco, con tanto di gironi, nella zona malfamata di Los Angeles. Un sacco di personaggi, tutti quanti effimeri, forse una scelta voluta del regista e sceneggiatore per mostrare quanto il modo del cinema sia anch’esso effimero, ma il risultato è quello di creare disinteresse da parte dello spettatore per questi personaggi, difficile prendere a cuore le vicende di queste donne e uomini d’altri tempi.

Anche i tre protagonisti, vengono al quanto bistrattati dallo script: Jack Conrad soffrirà il passaggio dal muto al sonoro che porterà la sua carriera all’inevitabile fine, ma il suo epilogo è troppo frettoloso e solo parzialmente motivato, Nellie, anche lei fregata dall’arrivo del sonoro, sembra sparire nel nulla, per poi mostrare nel finale il suo destino attraverso un articoletto di giornale. Manny è il personaggio più approfondito, che ha una carriera sfolgorante, senza capire bene il perché, e che verso il finale di Babylon, è protagonista della scena che rappresenta il climax del film. Con quel momento, Chazelle, prova ad alzare l’asticella dell’emozione mostrando attimi significativi della storia del cinema, ma che sembrano una strizzata d’occhio del regista verso il pubblico, tutto troppo didascalico e che a lungo andare risulta anche fuori luogo.

Anche il personaggio di Sidney Palmer potrebbe risultare fra i protagonisti, ma il problema è che si ha la sensazione che questo “protagonista” sia stato inserito a sceneggiatura ultimata, tant’è che trovare un collegamento fra lui e gli altri è uno sforzo di immaginazione, che Chazelle non ha fatto.

A completare i cast troviamo anche Samara Weaving, Eric Roberts, Lukas Hass, Max Minghella, Katherine Waterston, Phobe Tonkin, Jeff Garlin e Olivia Wilde, tutti in apparizioni fugaci e prive di coesione. Anche il cast è “troppo”

Raccontare il passato

Di storie che raccontano la Hollywood del passato c’è ne sono di vari tipi. L’arco narrativo di Babylon si svolge nella Losa Angeles degli anni 20, cos’ come la serie Netflix di Ryan Murphy, intitolata semplicemente Hollywood, che condivide con la pellicola di Chazelle la presenza di Samara Weaving nel cast. Nel 2019 Quentin Tarantino ha raccontato gli anni 50 e 60 in C’era una volta a Hollywood, con, guarda caso, Margot Robbie e Brad Pitt. A sottolineare la discutibile scelta di cast, dopo il troppo recente film tarantiniano, c’è una sequenza di Babylon, identica a quella del film del regista di Pulp Fiction: Dopo aver ottenuto la parte in un film, Nellie, il personaggio di Margot Robbie, va al cinema a vedersi, proprio come faceva Sharon Tate, sempre la Robbie, in C’era una volta ad Hollywood. Impossibile non notare la somiglianza, tanto da pensare che sia un omaggio a Tarantino, ma, a distanza di soli 3 anni fra i due film, sembra più una scopiazzatura riuscita male.

Le cose belle di Babylon

Nonostante quanto scritto finora, Babylon, ha i suoi momenti topici di rilievo: la scena iniziale, girata in piano sequenza è ricca di dettagli e ben coordinata, accompagnata dall’ottimo tema musicale di Justin Hurwitz. Anche la sequenza in cui Nellie prova a recitare per la prima volta in presa diretta, con il sonoro, regala un bel momento di comicità che degenera in tragedia, che fa subito fratelli Coen, girata con il giusto ritmo. Il già citato omaggio finale è qualcosa di divisivo, potrà strapparvi applausi, o farvi storce il naso, a seconda delle vostre idiosincrasie.

In conclusione possiamo dire che Babylon, candidato a tre premi Oscar, alterna attimi di buon cinema a vuoti momenti di banalità, tuttavia la somma delle parti non è all’altezza delle aspettative.