Riot: Civil Unrest, la rivolta in pixel che fa riflettere – Recensione

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Sembra impossibile, forse eccessivo, ma è la quinta volta che scrivo l’inizio di questa recensione di Riot: Civil Unrest. La mia difficoltà, in questo momento, è capire esattamente come trattare questo videogioco, visto come il progetto di Leonardo Menchiari si propone come un qualcosa di totalmente nuovo, al punto che fino alla prova nemmeno io avevo pienamente compreso quale fosse la portate di Riot.

Oramai da anni, chi vive il mondo dei videogiochi si scontra con la concezione che tutto ciò che appartiene a questo universo sia privo di qualsiasi altra valenza che non sia quella di intrattenere, senza altra funzione. Sarebbe inutile citare a questi convinti detrattori del videogioco come siano usciti prodotti che hanno affrontato tematiche di una certa rilevanza, come disturbi mentali (lo spettacolare Hellblade, uno dei migliori titoli dello scorso anno) o l’impatto della guerra sulla popolazione civile (This war of mine). Il videogioco non viene mai considerato come un valido strumento di riflessione, può dare dipendenza secondo l’OMS ma non ha sufficiente potere per essere utilizzato come elemento didattico.

Riot: Civil Unrest non è un semplice vidogioco, ma un valido studio sulle dinamiche di massa in una manifestazione di protesta

Eppure, esistono titoli come Riot. Che spaventano, perché Riot: Civil Unrest ha creato un certo scompiglio in certi ambienti. Fin dalla sua prima comparsa nel 2013, questo progetto ha raccolto il biasimo e lo scettismo del COSIP, il sindacato di polizia, che ha manifestato la propria opposizione a questo videogioco. Motivazione? Con un trailer e qualche screenshot, secondo le forze dell’ordine il titolo si proponeva come uno strumento per incitare alla disobbedienza e alla ribellione. Tutto perchè non si ha avuto l’onestà intellettuale di seguire l’iter dietro la creazione di questo progetto.

Leonardo Menchiari, l’ideatore di Riot, ha iniziato a lavorare a questo simulatore dopo aver preso parte ad alcune manifestazioni NO-TAV in val di Susa. Lo shock è stato nel vedere come ci fossero timore e paura anche nelle fila dei tutori dell’ordine. Della genesi del videogioco avevamo parlato qui, motivando come le accuse del COSIP fossero del tutto prive di fondamento, proprio perché viziate dall’ignoranza sul progetto e su quale fossero i punti di partenza dello sviluppo del titolo.

Riot: Civil Unrest è arrivato come Early Access su Steam a dicembre, e dopo averlo provato devo ammettere che nemmeno io avevo pienamente compreso la portata del lavoro di Menchiari e di IV Productions. Erroneamente ho definito in precedenza questo videogioco come un simulatore di rivolte, ma la sola simulazione che vedremo in Riot è sulle conseguenze delle manifestazioni.

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Nonostante il gioco ci metta alla guida delle forze di polizia o di manifestanti, in realtà parlare di controllo è una parola grossa. L’illusione del controllo è il motore di Riot, il farci credere di poter guidare dei contestatori su un ponte con un click o l’utilizzo di un particolare abilità, quasi che fossimo alle prese con un qualsiasi gestionale. In realtà, il titolo di Menchiari s è molto più complesso. Farsi ingannare dalla semplicità della grafica in pixel è il primo errore che si possa compiere approcciandosi a Riot. Nulla nel titolo in questione è semplice, tutto è studiato in modo da trasmettere al giocatore una serie di spunti di riflessione che vogliono portare ad una maggiore comprensione di tematiche che quotidianamente vediamo nei notiziari. Riot non lascia mai il controllo totale al giocatore, perché nella realtà nessuno ha veramente il controllo in quelle situazioni.

Ogni aspetto di questo gioco è curato e ottimizzato per dare una profonda sensazione di realtà. Abilità come il megafono sembrano indicare uno studio sulle dinamiche comportamentali dei gruppi, certi modi di interagire delle forze dell’ordine sono presi da manuali di controllo delle folle in dotazione a polizia ed esercito. Riot non vuole esser schierato, non vuole muovere accuse contro nessuno, ma ha l’intento di spiegare, mostrare i due lati della vicenda, consentendo al giocatore di vestire sia la divisa delle forze di polizia che i cappucci dei contestatori. Ed è una trovata unica, perché consente di comprendere come sia facile dare giudizi su eventi visti in televisione, senza conoscerne le dinamiche.

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In una delle primissime missioni, come contestatori dovremmo mantenere il controllo di una piazza per un certo periodo di tempo, evitando di venir allontanati dalla polizia. Sembra facile, noi abbiamo centinaia di manifestanti e i gendarmi sono pochi! Eppure, ben presto mi son ritrovato a dover controllare elementi del corteo pacifico che si disperdevano, mentre alcuni poliziotti si avvicinavano in modo più energico di altri. Questo perché Riot simula alla perfezione le dinamiche complesse di un evento simile, in cui subentrano paura, timore, momenti in cui una scintilla minima può trasformarsi in un incendio. Allo stesso modo, giocando come poliziotto ho affrontato la difficoltà nel non esagerare con la repressione, per non rischiare di creare precedenti violenti che potessero inficiare le future missioni. In Riot, infatti, al termine di ogni incarico verremo giudicati dal tribunale più inflessibile: l’opinione dei media. Tramite delle pagine di giornale leggeremo come siano state percepite le nostre azioni, con esiti che potranno facilitare o complicare le successive missioni.

Data la scelta di calare Riot: Civil Unrest all’interno dell’attualità, le diverse campagne sono ambientate in Egitto durante la Primavera Araba, durante la protesta NO-TAV e dando vita agli Indignados iberici. Ogni teatro di scontro manterrà le impostazioni base del gioco, ma le reazioni saranno differenti. Per capirci, un morto durante una manifestazione in Egitto avrà meno risalto di un atto di violenza di Val Susa. Questo per dare una percezione anche di come certe nazioni siano più o meno ricettive verso i contestatori, su come le forze dell’ordine possano godere di una maggior autonomia, che si può anche tradurre in violenza ‘di Stato’.

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Certo, nonostante questa incredibile valenza sociale, Riot: Civil Unrest mostra qualche difetto. La ripetitività di alcuni incarichi mina sensibilmente la giocabilità del titolo, che alterna missioni fin troppo semplici ad altre fin troppo complesse, al limite dell’impossibile. Qualcuno potrebbe contestare che la difficoltà nei controlli sia un difetto non da poco, ed inizialmente lo avevo pensato anche io. In realtà, questa difficoltà in alcuni aspetti dei controlli è una scelta che coincide con il voler mostrare ai giocatori la difficoltà nel controllare dal vivo una situazione così complessa.L’importanza dell’esperienza in game è importante per il team di sviluppo, che si premura di far tesoro delle nostre impressioni tramite la compilazione di un questionario, in cui le domande cercano di capire quanto il gioco ci abbia entusiasmato e quanto dello spirito didattico di Riot abbiamo compreso.

Riot: Civil Unrest è catalogabile come gestionale, come ha una valenza superiore. È difficile trovare una denominazione per questo che a tutti gli effetti è un esperimento, un modo per cercare di aprire gli occhi, senza giudizi o preconcetti, alla comunità dei videogiocatori. La paura che Riot ha suscitato in certi ambienti riesce solo a rendere l’idea di come anche un videogioco possa mostrare una dialettica tale da diventare più di un semplice intrattenimento, mostrando tutta la potenza di un valida strumento di riflessione.