Mindhunter, dentro la mente del serial killer – Recensione

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Mindhunter, quando non conta tanto il come ma il perché delle azioni dei serial killer!

L’incredibile quantità di serial crime apparsa negli ultimi anni ci ha portati ad appassionarci alla figura del serial killer, un elemento delle serie poliziesche che non manca mai di emozionare lo spettatore. Serial come CSI, Dexter o Criminal Minds devono a questa componente la propria fortuna, ma la nuova proposta di Netflix, Mindhunter, cambia le regole del gioco.

Nei serial citati, quello che ci viene presentato è la caccia al serial killer, un ricerca adrenalinica che si alimenta di termini come SI, ossessivo compulsivo, che per lo spettatore diventano a lungo andare scontati, ovvi. Criminal Minds, in primis, ci mostra il come agisce un serial killer, mettendoci di fronte alle sue azioni. Mindunter, invece, non si cura del come ma del perché, vuole portarci in un viaggio dentro la mente del serial killer per scoprire quali siano le dinamiche che lo portano ad agire, quali siano le radici del suo comportamento. E lo fa in modo squisito.

Siamo agli albori della scienza sui serial killer, a Quantico l’FBI non ha ancora una struttura in grado di fronteggiare minacce complesse, come assassini sequenziali. L’unico apporto a questo tipo di indagine psicologica è la sezione di studi comportamentali, che annovera solo l’Agente Tench.

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Il giovane agente speciale Holden Ford crede fermamente che il futuro vedrà un aumento di questo tipo di crimini violenti, e il Bureau deve prepararsi per far fronte a questa minaccia. Il suo modus operandi si scontra con le rigide linee operative dell’Agenzia, ancorata ad un vecchio modo di pensare e di agire. Holden è un elemento di rottura con la struttura monolitica dell’FBI, si interroga e si spinge anche oltre certi limiti pur di ottenere certi risultati. Proprio per questo, Trench lo vede come un’importante risorsa per la sua scarna sezione.

Mindhunter è ambientato negli anni ’70, in un America dove le ferite del Vietnam sono ancora aperte, in cui la società sta attraversando un periodo di transizione. Sono questi gli anni dei primi eclatanti casi di omicidi seriali o disturbanti (termine usato nella serie), con nomi che vengono ancora oggi studiati, come quelle di Manson.

Holden e Tench rompono gli schemi andando a interrogare questi primi assassini seriali, convinti che studiarli possa essere la chiave per altri crimini di questo tipo. Ford è il più convinto dei due, pronto a spingersi oltre ogni limite pur di raggiungere il proprio scopo. Interessante come si sviluppa il personaggio, non solo tramite lo studio delle mente criminali, ma anche nel confronto con la giovane fidanzata, donna che studia psicologia e che ha una visione molto diversa dall’establishment cui appartiene Holden.

Il confronto tra queste due diverse visioni è la molla che spinge il giovane agente a confrontarsi con una differente modalità di analisi della psicologia criminale, aprendo a nuove teorie e spingendolo a tornare anche al college per seguire nuovi corsi. La dinamica tra i due è intrigante, segue una progressione che dall’intimo si sposta al professionale, con Holden che viene spinto al confronto, stimolando la sua innata curiosità e portandolo a contrastare l’atteggiamento chiuso della burocrazia del bureau.

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Questo continuo confronto rende appassionante non solo il compito di Holden, ma anche la visione dello show. Agli occhi dello spettatore, Holden sembra cambiare lentamente ma inesorabilmente, anche nel suo modo di comportarsi con la fidanzata. La sua ascesa professionale, che raccoglie dubbi in seno all’FBI, corrisponde ad una progressiva deriva della sua sfera privata.

A completare il team arriva la dottoressa Carr, donna apparentemente dura, che cerca di emergere in un contesto prettamente maschile, una sfida nella sfida. La Carr è anche costretta ad affrontare la sfiducia dell’ambiente accademico cui appartiene, che ancora vede le agenzie governative come il simbolo di uno stato oppressivo, perfetto elemento di contestualizzazione storica. A dare ancora più spessore al personaggio di Anna Torv, il suo essere lesbica, in una società in cui l’omosessualità è ancora vista come un elemento disturbante e da tenere assolutamente nascosto.

La vita lavorativa e quella intima, personale, sono intrecciate in modo perfetto in Mindhunter. Il lavorare a stretto contatto con persone disturbate ha un prezzo salato da pagare, che Ford rischia di dover pagare duramente. L’ultimo di questi primi dieci episodi di Mindhunter è lampante in tal senso.

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La costruzione della struttura narrativa è perfetta, cerebrale e appassionata, arricchita con la musica del periodo, che conferisce un ulteriore realismo. Non ci sono inseguimenti e sparatorie, l’azione p totalmente assente, ed è un bene, perché Mindhuter punta in modo ottimo all’empatia e a alla curiosità si cosa spinga un serial killer a compiere determinate azioni. Insomma, l’ennesimo successo di Netflix!

Mindhunter si candida ad essere la serie dell’anno, per tutta una serie di ottimi spunti, ma soprattutto il voler presentare il rapporto serial killer-legge sotto una luce diversa,