Arriverà un giorno in cui gli zombie non saranno più il personaggio horror più sfruttato ed abusato del mondo dell’entertainment, ma di sicuro quel giorno non è oggi. Dal giorno in cui Romero riscrisse il canone del morto vivente, trasformandolo in critica alla società consumistica, gli zombie sono pian piano sempre più impersonali, protagonisti, ciò nonostante, di cult come The Walking Dead o figure di contorno di storie come Cargo, l’ultimo arrivato in casa Netflix.
Quando ho visto la notifica dell’introduzione di Cargo nel palinsesto Netflix, la prima reazione è stata quella di saltare la visione. Ormai di zombie ne abbiamo avuto abbastanza, e le storie sono ormai diventate prevedibili e stantie. A questo, si aggiunge una certa carenza nelle ultime produzioni del canale digitale che, tranne alcune esclusioni come Annientamento, hanno mostrato una certa debolezza nel volere portare il canale di streaming nelle vette del cinema.
Cargo porta gli zombie nello sconfinato outback australiano
Però il protagonista è Martin Freeman, attore che adoro, e soprattutto l’ambientazione è davvero innovativa: l’outback australiano. Insomma, ambientare una storia di sopravvivenza agli zombie in uno dei più grandi ed ancora inviolati spazi naturali era sicuramente una tentazione per gli spettatori, se non altro per via degli scenari mozzafiato di con cui deliziare la vista.
Ed ecco lì che la trappola ha funzionato, mi ritrovo sul divano a guardare Cargo.
Ci troviamo catapultati in un’Australia colpita da un’epidemia di zombie che ha decimato la popolazione, costringendo i pochi sopravvissuti ad una lotta disperata. Tra loro, anche Andy, Kay e la figlioletta Rose, che sulla loro casa galleggiante cercano di raggiungere un luogo che ritengono sicuro: una base militare.
L’impatto è notevole. Non ci viene spiegato nulla, apprendiamo con naturalezza la situazione di Cargo, vedendo il trio affrontare la nuova quotidianità, fatta di speranza e cocciuta voglia di sopravvivere, nonostante la situazione tragica. Questa condizione viene acuita dal fatto che i protagonisti già conoscono tutto dell’epidemia, dalla presenza del contagio alla sua propagazione, al punto che in Cargo esistono addirittura dei kit di eutanasia per i contagiati.
La situazione precipita quando , durante una ricerca di preziose scorte, Kay viene contagiata. In questo momento, non solo la situazione precipita, ma cominciano a comparire i primi segni di debolezza di Cargo.
La scena che dovrebbe dare il via alla componente drammatica di Cargo, è poco incisiva, quasi telefonata. In uno zombie movie ti aspetti la morte dietro l’angolo, ma proprio per questo è necessario costruire le scene clou in modo da emozionare e stupire lo spettatore.
Cargo sotto questo è lacunoso. Va ammesso che il suo intento non è tanto quello di spaventare lo spettatore, quanto piuttosto di coinvolgerlo emotivamente, creando uno sviluppo empatico che coinvolge anche la giovane Thoomie, una piccola aborigena che non accetta la perdita del propria padre (e che si ispira non troppo velatamente ad una certa Michonne…).
Per assurdo, questi componenti di prevedibilità e scarsa incisività vanno ad intaccare la buona idea iniziale di Cargo, che si ispira ad un cortometraggio omonimo del 2013. L’odissea di Andy e Rosie, i pochi rimasugli di umanità che incontrano e la disperazione di un padre che cerca di salvare la figlioletta in una lotta contro il tempo sono spunti narrativi interessanti, arricchiti da un discorso sul senso di famiglia che potrebbe, finalmente, venire trattato in modo concreto anche in uno zombie movie.
Ma tutto questo deve poggiare sul povero Martin Freeman, che, onestamente, è l’ultimo che avrei scelto per questo ruolo. Freeman è un caratterista perfetto, dotato di una mimica abbastanza rodata, che lo porta ad associare a ruoli che contengono una componente abbastanza comica. In Cargo, questa sua dote a volte emerge nei momenti sbagliati, dando una sensazione di scarsa credibilità, privando il personaggio di Andy del carisma necessario per creare pathos.
E questa debolezza dell’attore principale finisce per privare Cargo di solidità. Le musiche d’atmosfera e la stupenda natura australiana (che mi ha impressionato, grazie a regia e fotografia) non riescono a creare quell’immersione necessaria per sostenere un ritmo narrativo lento, che ben presto diventa arrancante.
Persino il finale, che dovrebbe il culmine emotivo di questa lunga traversia, manca di emotività. Certo, sapendo fin dall’inizio come si sarebbe risolta la vicenda non ci si poteva attendere chissà quale colpo di scena, ma un guizzo emotivo, una scossa allo spettatore era necessaria.
Cargo può vantare alcune scene particolarmente strazianti, come la famiglia in riva al fiume, ma i picchi emotivi sono così rari in questa pesantezza narrativa da rendere il nuovo arrivato di Netflix non tanto un’emozionante variazione sul tema zombie, quanto un ottimo sonnifero.