Akira: l’Uomo e la Bomba, Dio e l’Apocalisse – Il significato di un capolavoro

Akira

Tra poco io e mia moglie finalmente coroneremo il sogno di visitare Tokyo ed il resto del Giappone.

In qualcuno di voi questa notizia avrà già fatto nascere un sorrisetto, intuendone le implicazioni con il titolo del pezzo, ma prima di venire sommerso da uno tsunami di “E sti ca**i?” da tutti gli altri, lasciate che vi spieghi.

A trent’anni dalla sua uscita Akira, il capolavoro cyberpunk di Katsuhiro Otomo, continua ad influenzare un’intera generazione con i suoi significati profondi e i messaggi lanciati all’umanità

Quest’anno Akira, il capolavoro di Katsuhiro Otomo, ha compiuto 30 anni ma l’anno prossimo il tanto temuto 2019 arriverà davvero, accompagnato dall’attesa per le Olimpiadi del 2020 a Tokyo.

Akira si svolge proprio nel 2019, in un Giappone devastato socialmente ed economicamente dal post-Terza Guerra Mondiale, in attesa dei trentesimi Giochi Olimpici che l’anno successivo dovrebbero tenersi proprio nella capitale nipponica.

Si tratta di una “coincidenza” decisamente ironica, oltre che un filo terrificante.

In questo pezzo non vi racconterò né la trama del film o del manga, né tantomeno vi parlerò dell’impatto che Akira ha avuto e continua tutt’ora ad avere sul mondo dell’animazione, giapponese e non.

In modo del tutto arrogante e pure un pochino incosciente, nelle righe seguenti cercherò di sviscerare senza pudore i temi reali affrontati da Otomo.

La Bomba, o meglio: le Bombe

Fat Man e Little Boy, nell’agosto del 1945 e a tre giorni di distanza l’una dall’altra, cambiarono per sempre il corso della Storia moderna, mettendo fine alla Seconda Guerra Mondiale alla vita di centinaia di migliaia di civili.

Il Giappone è (e rimane) l’unica nazione del Pianeta ad aver mai subito l’orrenda potenza distruttiva dell’Atomo e ne porta tutt’ora le cicatrici, distribuite con crudele precisione e puntualità soprattutto sulla pelle della sua cultura pop.

Da Godzilla al First Impact, la produzione cinematografica, letteraria e fumettistica del Sol Levante non ha mai dimenticato (e, di riflesso, non ci ha mai fatto dimenticare) quei due giorni infami, in un florilegio di reminder visivi e narrativi, variando con classe dall’agghiacciante rappresentazione della realtà (come in Hadashi no Gen) alla più o meno elaborata metafora (e qui gli esempi si sprecano, ma non serve andare più lontano dei primi due minuti della pellicola di cui stiamo parlando).

Il popolo Giapponese, nei secoli e anche prima dell’atomica (ma pure dopo) ha sempre dovuto fare i conti con forze più grandi di lui che cercano costantemente di sottometterlo.

Terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami.

La lista dei “nemici” inaffrontabili è lunga tanto quanto pericolosa e viene affrontata dalla cultura nipponica con una resilienza radicata a livello genetico in tutto l’arcipelago e, come ho già affermato ad altre latitudini, la cultura popolare spesso si incarica di “metabolizzare e metaforizzare” l’ignoto e l’inarrestabile; dandogli di volta in volta la forma di un colossale rettile, di un alieno semi divino o, in questo caso, di un… uomo.

Il misterioso Akira nell’incipit e Tetsuo nel finale del film, indossano a diverso titolo il manto (per Tetsuo quest’affermazione è ancora più didascalica) del “Distruttore“, del “Portatore di morte“.

Emblematica è la scelta dell’autore di intervenire in una lunga tradizione di spersonalizzazione della figura del disastro, incarnandola per ben due volte in un essere umano, ancorché semplice simulacro di una metafora nazionale ben più estesa.

Già, perché Tetsuo e, per estensione, tutta Neo-Tokyo, sono contenitori di un panorama narrativo più ampio e di una metafora del Giappone stesso.

L’Uomo, Dio e l’Apocalisse

La città tentacolare, accecante, disperata e depravata in cui si svolge il film è lo specchio di un paese rialzatosi troppo in fretta (e forse mai per davvero) dl devastante KO bellico subito.

Preda di politici corrotti e terroristi prezzolati o, nella migliore ipotesi, ciechi di fronte alla realtà, Neo Tokyo diviene territorio di scorribande tremende e ferali, ancorché visivamente stupende, perpetrate da una gioventù lasciata allo sbando più totale da genitori (morti), insegnanti (fascisti) e istituzioni (violente o semplicemente disinteressate).

Neo Tokyo è talmente lanciata a massima velocità contro un muro che persino un atto deplorevole come un colpo di stato militare appare come un cambio di rotta salvifico, ad un certo punto del film.

Ma la città non è solo un agglomerato cyberpunk di palazzi chilometrici, luci al neon e sudiciume (e omaggi palesi a Blade Runner): la città è l’alveare degli uomini.

Uomini come i nostri due protagonisti, Kaneda e Tetsuo.

Forte, risoluto e un po’ ottuso e spaccone il primo; complessato, violento e carico di rabbia ed invidia il secondo; Kaneda e Tetsuo vedono le proprie vite sconvolte dagli accadimenti ai quali assistiamo anche noi spettatori, anche se ad avere la peggio è proprio il kohai Tetsuo, simbolo chiaro del Giappone dell’immediato dopoguerra (quella vera, stavolta).

Come detto all’inizio della sezione, Tetsuo è la metafora che Otomo ci propone del suo stesso paese, negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale e, più avanti nella narrazione, di quello stesso Giappone alle prese con un potere che non riesce a comprendere e con una crescita che non è in grado di sostenere.

Non a caso il corpo di Tetsuo, in un mirabile esempio di cinematografia dedicata al concetto di “Body-Horror”, non riesce a contenere il potere assimilato troppo in fretta e, in una sequenza che ha fatto storia, soccombe a quello stesso potere mutando in un’orrenda creatura amorfa e colma di dolore.

Il giovane biker diviene un dio, ma non sa gestire quel ruolo e ne patisce le folli conseguenze.

Chiaro il parallelismo dell’autore fra il protagonista e il Giappone, che negli anni ’80 (gli anni della produzione e della release del film) assaggiava i risultati di una crescita economica senza precedenti, frutto dell’avanzamento tecnologico-industriale senza freni di quel periodo storico.

Otomo ci mostra, senza filtri, la fine che l’Uomo può fare se si impadronisce del potere di un dio senza un’adeguata maturità morale a farvi da argine.

Tetsuo impazzisce, uccide, ingloba, divora e, tema molto caro ad un Paese per secoli isolazionista, perde la propria identità in questo processo.

Il tutto perché il giovanotto in questione era semplicemente stufo di essere “salvato da altri” e voleva dimostrare di “potersi reggere sulle proprie gambe” riferendosi, nel caso del film, a Kaneda, ma, nelle intenzioni dell’autore, agli Stati Uniti e al loro supporto al governo nipponico durante il Kōdo keizai seichō (il miracolo economico Giapponese).

Non a caso, se ci pensate bene, Kaneda è in tutto e per tutto un action hero all’americana.

Così, senza una morale a protezione, l’Uomo diviene Dio e, inevitabilmente, Dio diviene Apocalisse.

Nei momenti finali del film Tetsuo distrugge una seconda volta la città di Tokyo, mettendo nella stessa situazione di 31 anni prima i suoi abitanti.

Allo stesso modo il Giappone del mondo reale, dopo l’esplosione della bolla speculativa sui mercati azionari ed immobiliari nel 1991 (i cui prodromi iniziarono a formarsi nel 1986), si ritrova un’ennesima volta a terra, con cicatrici non più visibilmente impresse nella carne, ma insinuate nel suo altrettanto fragile e sanguinante tessuto economico e sociale.

Il vero finale del film, però, offre una sorta di speranza per chi rimane (Kaneda e Kei sopravvivono) e per chi se ne va (Tetsuo e gli altri esper viaggiano verso una nuova dimensione e l’ex biker dà origine ad un nuovo Universo con il proprio Big Bang personale).

La scena conclusiva, entrata nella leggenda del cinema mondiale, fornisce allo spettatore anche una sorta di augurio, formulato dall’autore, al proprio Paese.

Quell’ “io sono Tetsuo” non solo appare come la frase di un nuovo e più consapevole Dio-Uomo alle prese con la creazione, ma anche come un solido ritrovamento della propria identità personale, persa nell’estasi del potere incontrollato.

Negli ultimi 15 anni il Giappone ha più volte fatto a pugni con lo spettro di una nuova recessione, restando al tappeto di frequente; solo nel 2012 il premier Shinzo Abe è riuscito, seppur brevemente e con risultati altalenanti, ad invertire la rotta grazie a manovre economiche coraggiose e ad investimenti ingenti nella realizzazione di grandi infrastrutture.

Infrastrutture come quelle che ospiteranno le Olimpiadi del 2020 che, guarda caso, quasi a confermare la “profezia di Otomo”, faranno da sfondo a Tokyo Reborn, la miniserie televisiva anime tratta da Akira e creata proprio da Katsuhiro Otomo,

Sperando che, sotto ad uno dei tanti nuovi stadi che stanno venendo edificati, non ci sia da qualche parte una capsula criogenica con i resti di un pericolosissimo esper-bambino…