Bohemian Rhapsody: tutto in una canzone – Recensione

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Se sei cresciuto a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, i Queen li hai cantati per forza. Magari non ti sei sgolato con Tie your mother down, non avrai consumato la cassette con The Miracle, ma Who Wants to live forever, We are the Campions e Radio Gaga le hai fischiettate almeno una volta e se senti passare in radio Flash l’acuto lo provi. I Queen hanno segnato un’epoca ed era inevitabile che prima o poi diventassero protagonisti di un film, che non poteva che intitolarsi come una delle canzoni più celebri: Bohemian Rhapsody.

Il mito dei  Queen sbarca al cinema con Bohemian Rhapsody

E qui il fan dei Queen inizia a tremare. Che i biopic non siano la realtà storica è un dato di fatto, dato che le esigenze di coinvolgimento dello spettatore non possono venir blandite dalla fedeltà agli eventi, ma alcuni accorgimenti di trama sono non solo comprensibili, ma necessari. E scelte in tal senso non hanno certo scalfito la bellezza di film come Rush, La battaglia dei sessi o Michael Collins. Anche il recente Outlaw King di Netflix ha mostrato che si può conciliare al meglio storia e intrattenimento, ad una condizione: aver una buona base.

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Bohemian Rhapsody sembrava un film destinato a non veder mai la luce. Liti sul set, il regista Brian Synger che abbandona tutto ad un mese dalla fine delle riprese con uno strascico di speciose accuse non sono un buon biglietto da visita, lasciando a Dexter Fletcher il compito di ultimare il film. Però vedi il trailer, senti la musica dei Queen e il quindicenne mai cresciuto che ti porti dentro pensa solo a quelle note, si lascia quasi sedurre dal Mercury di Rami Malek e poi strabuzza gli occhi per il Brian May di Gwilym Lee.

Andare in sala a vedere Bohemian Rhapsody era una tentazione a cui non ho resistito. La delusione era in preventivo, perché si sa che i miti spesso vengono presentati solo per esser venerati e non nella loro già stupenda realtà. E i Queen fanno proprio questa fine in Bohemian Rhapsody, diventano una visione di come i sopravvissuti della band vorrebbero far creder di esser stati all’epoca.

E questa loro volontà si era già manifestata quando imposero il cambio di protagonista, con Sasha Baron Cohen, che sarebbe stato un perfetto Mercury, sostituito da Rami Malek. Interpretare uno dei miti della musica degli ultimi cinquant’anni non è certo facile, figuriamoci se il personaggio in questione aveva il carisma e la vitalità del frontman dei Queen.

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Il povero Malek ci ha provato, questo va detto. Cerca di muoversi come Mercury, prova a raggiungere il suo carisma, ma andando oltre a battutine scontate e a tratti forzate, non riesce ad avvicinarsi alla potenza di Freddie. La sua interpretazione è buona, non fosse che negli occhi di chi ha consumato il dvd di Live at Wembley ’86 i suoi passi e il suo imitare le mosse di Freddie siano quasi una prova da show televisivo del venerdì sera. Impietoso il confronto della performance al Live Aid, dove Malek si sforza, segue anche con cadenza perfetta le mosse dell’epoca di Mercury, ma mancano la sua  fisicità e il suo sguardo.

Dove Mercury era energia e potenza, Malek è meccanica a comando. Non c’è convinzione nella sua verve, non riesce ad emergere. Complice una trama troppo sdolcinata, in cui sembrano che la vita della band sia una avventura fantastica, ideale, senza voler mostrare il lato meno piacevole. Ogni canzone nasce, invece, in modo liscio, senza alcun problema, ogni componente della band incarna uno stereotipo. Bohemian Rhapsody a causa di questa volontà di raccontare solo il bello della via dei Queen perde di concretezza, diventando a tratti stucchevole.

Potenzialmente, gli ingredienti per un gran film c’erano tutti. Il mito della band britannica è materia da grande storia, non serve nemmeno romanzarla. Raccontare l’ascesa di questo gruppo, con il culmine del Live Aid del 1985 doveva esser vissuta come una missione, da trattare con rispetto e senza voler aggiungere emozioni fittizie e costruisce ad arte.

Il voler presentare il Live Aid come una reunion ha un valore emotivo forte, ma perché inventarsi una simile fesseria sapendo che The Works era uscito solo l’anno precedente e aveva dato vita ad un tour si sarebbe concluso nel maggio dell’85, una manciata di mesi prima del Live Aid. E si potrebbe obiettare della volontà discutibile di non ricordare come fosse la formazione originale della band (all’arrivo di Farrokh bolsara il bassista era Mike Grose, a cui si sostituì poi  Barry Mitchell sino all’ingresso nel ruolo di John Deacon nel dicembre del ’71) o di anticipare il dramma dell’AIDS di Mercury di svariati anni, o inventarsi liti per un disco solista del frontman della band, mentre altri componenti avevano già percorso questa strada.

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Ci sono lati oscuri che fanno storcere il naso, in Bohemian Rahpsody. I fan sfegatati si possono dividere in due schieramenti, i puristi insoddisfatti e gli appassionati che pur di rivivere quelle atmosfere sono pronti a chiudere un occhio su certe licenze, anche se eccessive. Quindi come giudicare Bohemian Rhapsody?

Sarebbe fin troppo facile demonizzarlo per la sua assenza di aderenza storica, roba da maniaci (reo confesso), ma si sa che i fan talebani mancano di lucidità. Bohemian Rhapsody vuol esser un omaggio ad una stagione del rock ritraendo una delle band simbolo di quegli anni, romanzando all’occorrenza ma facendo leva sull’onesta emozione suscitata da brani che hanno segnato (e segneranno ancora a lungo) il patrimonio musicale mondiale.

Alla fine, l’unico metro di giudizio è il fatto che come partono quelle note immortali ci si ritrova a cantarle, muovi la testa e la voce di Freddie ti rimette in pace con tutto. Mettici un cameo-easter egg di Mike Myers che richiama ad una delle scene più iconiche di Fusi di testa, e l’effetto nostalgia fa il suo sporco lavoro.

Il compito di Bohemian Rahpsody, a conti fatti, potrebbe non essere tanto quello di raccontare la realtà della vita della band, quanto di avvicinare nuove generazioni ad una maniera di fare musica che non morirà mai.