Thunderbolts* si è mostrato ai miei occhi e alle mie sinapsi, un po’ stanche di assistere ai vari e vani tentativi dei Marvel Studios di “riprendersi” dall’apoteosi di Avengers: Endgame, un po’ in sordina, quasi sottovoce, nonostante gli articoli pubblicati nel corso dei mesi su Justnerd che, a dire il vero, qualcosa di inconsciamente stuzzicante forse lo avevano instillato nel mio animo da appassionato.
Così, armato di una buona dose di speranza e della mia vena solitaria che mi ha fatto scegliere l’orario meno di punta e la sala meno affollata del multisala di Surbo, mi sono seduto in poltrona abbastanza fiducioso, alzandomi alla fine della proiezione contento di essere stato tra i primi a godere di un film che non sapevamo di voler, ma di cui avevamo estremamente bisogno.
Thunderbolts*, il film nessuno si aspettava
Ebbene sì, Thunderbolts* non è solo l’ennesimo cinecomic Marvel, ma è la pellicola che prende il MCU per la giacchetta e gli dice: “Ehi, noi fan vogliamo questa roba, vogliamo qualcosa di vero e profondo, senza iniezioni botuliniche di politically correct e altre forzature per accontentare democraticamente tutti.” E, sorprendentemente, il film diretto da Jake Schreier lo fa davvero.
In un panorama cinematografico in cui i supereroi adesso combattono più i multiversi che i villain, Thunderbolts si prende una pausa dalla CGI sfrenata per concentrarsi sui personaggi e soprattutto sulle loro fragilità: insomma tornano i superproblemi dei supereroi ma senza l’animo di melensa compassione che rende i superumani meno caxxuti. Quindi, tranquilli, nessun drammone esistenziale, anche perchè c’è azione, humor, scene toccanti e una trama semplice e lineare che, comunque, riserva un colpo a sorpresa nel finale che svela anche il significato dell’asterisco nel titolo del film.
Un team di “falliti” con un cuore grande
La nostra guida in questo viaggio nella mente e nel cuore è Yelena Belova, interpretata da un’ormai strepitosa Florence Pugh. Quando la incontriamo, la sorellina dell’ormai compianta Natasha Romanoff è in “modalità depressione attiva”: scazzo totale, occhi spenti e zero motivazione. Non è la letale eroina che abbiamo conosciuto in Black Widow ed Hawkeye, ma una donna (inteso come essere umano) alla deriva.
E poi ci sono loro: un manipolo di personaggi Marvel con traumi grossi come macigni. Insieme formano i Thunderbolts, un gruppo che sembra messo insieme dal caso, e in effetti lo è per davvero, ma che funziona come una “perfetta” famiglia disfunzionale a cui finisci per affezionarti, quasi come hai fatto con gli Avengers. Sia chiaro, non è la solita squadra di buoni alla Steve Rogers e di paladini alla Tony Stark: qui nessuno è un vero “salvatore”. Tutti sono un feriti, vissuti, un po’ cinici e a volte egoisti, ma con una cosa in comune: cercano di diventare squadra pezzo dopo pezzo, con l’aiuto di un motivatore old school.
Florence Pugh regina del film e “guida” involontaria dei Thunderbolts*
Sì, Thunderbolts* è un bel film corale. Sì, c’è Bucky. Sì, ci sono Red Guardian, Valentina Allegra de Fontaine, US Agent e Ghost. Ma la verità è che il cuore pulsante di Thunderbolts è il duo formato da Yelena e Bob (interpretato da Lewis Pullman). E se state pensando “Bob chi?”, vi capisco. Ma fidatevi: Bob sarà uno di quei personaggi che finiranno nei fanart, nei meme e, probabilmente, in qualche cosplay molto elaborato alla prossima Lucca Comics.
La chimica tra Pugh e Pullman è palpabile. Lei è dura ma disillusa e con l’animo spezzato; lui è misterioso, tenero e con un passato oscuro di traumi infantili e droghe che si svela a poco a poco. Insieme? Sono dinamite emotiva. Funzionano, si compensano e, udite udite, a volte fanno anche sorridere.
Marvel e la salute mentale dei supereroi
Certo, non è la prima volta che il Marvel Cinematic Universe sfiora il tema della salute mentale e dei problemi personali che affliggono anche i supereroi. Ricordiamo Tony Stark in Iron Man 3, Thor depresso in Endgame, e Moon Knight che è praticamente un case study da manuale di psichiatria. Ma in tutti questi casi, il disagio interiore era una sottotrama, un contorno al solito piatto principale del menù supereroistico.
Thunderbolts*, invece, mette la fragilità al centro. Qui non si tratta solo di combattere il cattivo di turno, ma di affrontare i propri demoni e sfuggire a chi vorrebbe sbarazzarsi di quei supereroi il cui curriculum non è così immacolato. E se pensate che tutto ciò renda il film noioso, vi sbagliate di grosso. Perché Thunderbolts* non si perde in monologhi pseudo-filosofici o in piani terapeutici spiegati dal villain: parla delle nostre paure con un’onestà sorprendente, con momenti di leggerezza che arrivano sempre al momento giusto.
Azione, umorismo e l’apocalisse dietro la porta
Niente paura: non stiamo parlando di un film Marvel diretto da Kripstak e Petrektek. Si tratta di un cinecomic con tutti i crismi:le scene d’azione ci sono eccome, e sono anche belle toste. Le coreografie funzionano, il ritmo tiene e i combattimenti non sono mai gratuiti: c’è sempre qualcosa in gioco, qualcosa che va oltre la semplice sopravvivenza o la scontata contrapposizione tra bene e male, tra giusto e sbagliato.
E poi c’è l’umorismo. Sì, quegli ormai classici momenti “risatina” Marvel-style che a volte fa storcere il naso ai puristi. Ma qui le battute, a differenza di quanto accade in Deadpool e Wolverine, non uccidono la tensione, anzi: la bilanciano. Ci sono risate amare, battute che nascondono dolore, e momenti di pura leggerezza che ci ricordano perché abbiamo amato questo universo fin dall’inizio.
Un cast che funziona, anche nelle sue imperfezioni
Florence Pugh ormai è una sicurezza. Se c’era bisogno di conferme, Thunderbolts* gliele ha date tutte e adesso è davvero la degna erede di Scarlett ohansson e della sua Vedova Nera. Ma attenzione a David Harbour, che torna nei panni di Red Guardian e si conferma il gigante buono del team. Le sue interazioni con Yelena sono tra le più sincere del film. Inoltre, il suo essere un simbolo di Stranger Things regala quel non so che di appagante nelle scene che ricordano un po’ le atmosfere della serie TV culto dei fratelli Duffer.
Wyatt Russell sorprende con un John Walker più sfumato e meno “capitanamericano psicopatico” di quanto ci aspettassimo. E Julia Louis-Dreyfus? Be’, è sempre un piacere vederla sullo schermo, anche se il suo personaggio, Valentina, resta un po’ una caricatura da machiavellica wannabe, con il doppiaggio della bravissima Eleonora De Angelis che, forse, non sembra del tutto adatto al personaggio ma personalmente me la fa amare perché mi ricorda Rachel di Friends.
Un po’ in disparte, purtroppo, troviamo Sebastian Stan. Ora, parliamoci chiaro. Stan è un veterano del MCU. Il Soldato d’Inverno si è fatto guerra, lavaggi del cervello e red carpet per anni. Eppure, anche stavolta sembra relegato al ruolo di comparsa glorificata. È un peccato, perché il personaggio ha ancora tanto da dire e, sinceramente, meriterebbe più spazio soprattutto se guardiamo a tutto ciò che è stato dato, in termini di visibilità, a Antony Mackie e al suo Captain America ex-Falcon. Ma almeno stavolta Buckyè in buona compagnia: anche Hannah John-Kamen (Ghost) è tenuta abbastanza in disparte.
Il futuro del MCU è (di nuovo) interessante? Speriamo…
Diciamocelo: il post-Endgame non è stato esattamente una passeggiata Marvel. Tra serie interrotte, personaggi comparsi e mai più rivisti, e una saga del Multiverso che sembra davvero non voler decollare, l’MCU ha perso un po’ di smalto.
Tuttavia, a differenza dei sui più diretti predecessori, Thunderbolts* riaccende una scintilla. Non perché rilancia la prossima “fase”, ma perché ci ricorda perché ci siamo affezionati a questo universo: per i personaggi, per le storie che in fondo parlano di noi, anche se sono ambientate in laboratori segreti o su pianeti lontani. Insomma, tutto ciò che in qualche modo percepiamo come vero o verosimile e non artificialmente costruito per cavalcare le tendenze del momento.
È un film con le spigolosità di chi prova a dire qualcosa di diverso. E anche se non tutto fila liscio, anche se alcuni personaggi meritavano più spazio, resta uno dei progetti più sinceri ed emotivamente efficaci dell’intera saga. Speriamo che qualcuno, ai piani alti dei Marvel Studios, capisca che serve un bel cambio di direzione affinché questa scoppiettante scintilla possa cadere e far divampare un incendio di creatività slegata da logiche “piacione” urbi et orbi.
Thunderbolts* è imperfetto ma necessario
Thunderbolts* non sarà il miglior film Marvel di sempre, ma di scuro il più riuscito degli ultimi anni (nessuno se lo sarebbe mai aspettato, siamo onesti). Questo film non cambierà la storia del cinema, ma riesce in qualcosa di molto più difficile: trasmette empatia con i personaggi (anche se non con tutti).
La pellicola di Jake Schreier ci dice che anche i supereroi piangono, che anche loro si sentono persi, inutili, fuori posto e potrebbero bellamente fregarsene di tutti i problemi del mondo. E lo fa senza moralismi, senza pietismi, usando il cuore, i pugni (in senso letterale e figurato) e con una squadra di outsider che, per una volta, non si sforza di piacere ma che funziona e basta.
Alla fine, quando partono i titoli di coda, prima delle scene post credit di cui una è una vera chicca inaspettata, mentre i pochi spettatori della sala 8 del Cinema The Space di Surbo applaudono timidamente ma con convinzione mi sono fermato a pensare: “Ok Marvel, forse non sei davvero alla frutta. Forse hai solo bisogno di un po’ di terapia… di gruppo.”…appuntamento al 25 luglio 2025 con la speranza che il trend negativo sia davvero finito.