Van Gogh: Sulla soglia dell’eternità – Recensione

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Da qualche giorno è uscito nelle sale il film Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità diretto da Julian Schnabel con Willem Dafoe nel ruolo del leggendario pittore olandese vissuto nella seconda metà dell’Ottocento.

Il film segue gli ultimi anni di vita di Vincent Van Gogh, quelli in cui la sua follia ha progressivamente preso piede, dalla tormentata amicizia con Paul Gaugin fino alla morte avvenuta nel 1890 all’età di soli 37 anni. Si vedono i tentativi di Van Gogh di ottenere successo come pittore, le incomprensioni del pubblico e di parte della critica e il rapporto con il fratello Theo.

Van Gogh: Sulla soglia dell’eternità è un emozionante ritratto del celebre pittore

Parlare di questo film non è difficile: di più!

Potrei liquidarlo in un paio di righe dicendo che è un bellissimo film, girato in maniera splendida, con una fotografia sensazionale e baciato da una ricostruzione storica perfetta, ma probabilmente gli farei un torto perché c’è molto altro da dire.

I motivi per cui è difficile parlarne sono i più disparati: innanzitutto non è un film facile. Non lo dico per fare lo snob o il critico della domenica, ma per il semplice motivo che è così: il regista Schnabel, a sua volta pittore, non concede praticamente nulla allo spettatore comune.

Se vi siete bagnati di lacrime a vedere Bohemian Rhapsody, ovvero il film fantasy biografico su Freddie Mercury, sappiate che siamo quanto di più distante si possa immaginare da quel tipo di pellicola.

Van Gogh è un film fatto di immensi silenzi, di intere sequenze lunghe parecchi minuti fatte di sole musica e immagini, immagini in cui vediamo Willem Dafoe/Van Gogh vagare per i campi, per i boschi e, ovviamente, dipingere. Questo è storicamente accertato, in quanto il pittore era solito cercare ispirazione immergendosi nella natura.

E proprio la natura è una delle protagoniste di questo film. I paesaggi e gli spazi, gli alberi e la terra, smettono di divenire semplice sfondo per essere attori in primo piano: immense sequenze della natura avvolgente, dei campi di grano, dei maestosi alberi francesi. Immagini di straordinaria potenza visiva.

Ciò che più ho apprezzato delle scelte stilistiche del film, è che nessuna di esse è un mero sfoggio di tecnica fine a se stessa. Non stiamo parlando di un film come Revenant, per dirne uno, in cui il regista si è impegnato a far vedere quanto è bravo. Ogni scelta stilistica è funzionale all’obbiettivo del film, ovvero esplorare la personalità complessa e affascinante di Van Gogh: la telecamera traballante, probabilmente a spalla, che permea quasi tutti il film, che rappresentano la sua mente sempre più in bilico verso la follia, i primi piani allucinati che tantissimo devono al cinema muto (ma anche a Pasolini, per dirne uno), le inquadrature di sbieco e non lineari per sottolineare l’estro artistico fuori dagli schemi.

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Più di tutto, Van Gogh – Sulle soglie dell’eternità è un film che parla di arte e del rapporto tra l’artista e l’epoca in cui vive. Ultimamente, quando si tende a fare un complimento a un artista, qualunque sia il suo campo, gli si dice che è avanti. In realtà si tratta di un complimento che non vuol dire nulla, perché se uno fosse veramente avanti, la sua arte non verrebbe minimamente capita, non la si definirebbe neppure arte.

Ecco, Van Gogh era veramente geniale, veramente avanti, al punto da non essere stato minimamente compreso. Oggi siamo soliti considerarlo un immenso artista, e lo è stato, ma è una rivalutazione avvenuta nei decenni successivi alla sua morte, mentre quando era in vita è sempre stato ignorato, per non dire sbeffeggiato e deriso. Ha sempre vissuto in povertà estrema e la critica lo ha quasi del tutto snobbato. Aveva un modo di rappresentare il mondo circostante assolutamente antitetico rispetto all’uso comune.

Il suo stesso amico Paul Gaugin, interpretato da Oscar Isaac, indubbiamente un pittore che ha lasciato un grande segno nella storia dell’Arte, ha criticato più volte suo lavoro, spingendolo anche a cambiare stile, a uniformarsi ai canoni dell’epoca. Persino Gaugin non è riuscito a cogliere la grandezza dell’opera di Van Gogh.

Questo non è tanto un film su Van Gogh, benché è chiaro che il regista lo ami tantissimo, ma è più un film sull’estro artistico, sul fuoco che arde nel cuore di ogni artista, le pulsioni più profonde che lo spingono a creare. Le scene più belle e toccanti sono quelle in cui si parla della creazione artistica intesa come azione artistica, come visione del mondo e dell’umanità.

Scendendo un momento dal piedistallo e parlando del film in senso stretto, si può dire che Willem Dafoe ha interpretato Van Gogh in maniera magistrale, calandosi in pieno nello spirito del personaggio e facendolo proprio. Per dare ancora più realismo alla sua figura ha imparato a dipingere secondo la tecnica del pittore e nelle scene in cui disegna, Dafoe sta veramente disegnando! La ricostruzione storica della Francia e dell’Olanda di fine XIX secolo è davvero ben riuscita nonostante il budget chiaramente limitato, molto più vivida rispetto a tanti fondali in digitale visti di recente. La colonna sonora è semplicemente maestosa, non ho altre parole per definirla.

Sia messo agli atti che il film non è esente da difetti: il regista, uno di quelli che gira un film ogni dieci anni, pecca di didascalismo in più occasioni e anche il finale risulta un po’ troppo accelerato rispetto al ritmo generale della pellicola. Curioso che la morte di Van Gogh non si risolva con la versione più accettata, il suicidio, bensì con non canonico omicidio involontario da parte di due ragazzi (versione che ha cominciato a circolare da pochi anni e che non ha trovato grossi riscontri da parte degli storici).

Si tratta di difetti marginali che scompaiono di fronte alla maestosità di tutto il resto. Il film non resterà a lungo nelle sale, troppo interessate ai blockbuster di facile guadagno, ma se riuscite a trovarlo in qualche cinema di periferia correte a vederlo. Occhio però che non si tratta di un film da guardare sgranocchiando popcorn, ma aprendo il cuore e la mente.