Maniac, storia di amore e paure – Recensione

Maniac, la nuova miniserie presentata da Netflix, è una produzione che non si riesce a collocare facilmente in un genere. Sarebbe semplice etichettarla come fantascienza, ma l’elemento futuristico è solo un fine strumento utilizzato al meglio per veicolare una storia stupenda e ricca di significato. Si potrebbe quindi teorizzare di esser di fronte ad un’affascinante narrazione sull’amore e la sua forza, oppure su come affrontare i propri demoni interiori sia una sfida incredibilmente ardua e spesso massacrante. Più semplicemente, credo che Maniac sia una miniserie non catalogabile per la sua incredibile verve emotiva e la sua storia particolare.

Maniac, viaggiare nei propri demoni per raggiungere l’amore

Tutti questi aspetti sono infatti miscelati in modo perfetto e mai banale in una storia che vede due protagonisti particolari.

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Owen Mills (Jonah Hill) è figlio di una ricca famiglia, costretto a convivere con i propri fallimenti nella disperata ricerca di un modo di sottrarsi al suo soffocante cognome, incarnato nel dominio psicologico del padre, un sempre convincente Gabriel Byrne. A rendere più difficile il tutto è la sua schizofrenia, malattia che Owen somatizza vedendosi protagonista di una congiura in cui lui è l’eletto che potrebbe salvare il mondo. In questo suo delirio, si intreccia una sua testimonianza centrale nel processo per violenza intentato contro il fratello, l’erede designato della dinastia Mills.

Annie Landsberg (Emma Stone) vive in una continua tortura auto-imposta come espiazione per la morte della sorella, trauma da cui non è mai guarita, per sensi di colpa che si scoprono nel corso degli episodi. Il suo approccio alla vita è cinico, astioso e sempre orientato a non affrontare i propri demoni, sublimandoli in dipendenze varie.

Entrambi decidono di trovare un modo di risolvere le proprie problematiche aderendo ad un progetto sperimentale, gestito dalla NPB, basato su un doppio utilizzo di sostanze chimiche e di interazione con un’intelligenza artificiale capace di creare delle simulazioni in cui affrontare i propri demoni.

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L’idea alla base di Maniac è interessante e promettente, ma ad avermi attratto in particolare erano due elementi: Cary Fukunaga e Jonah Hill.

Fukunaga mi aveva stregato ai tempi della prima stagione di True Detective. La sua capacità espressiva era stata folgorante, ma passare dal tono serio e cinico della serie poliziesca a quello più sfrenato ed onirico di Maniac non era un passaggio facile. Eppure Fukunaga, che dirige anche gli episodi, è riuscito a creare un’atmosfera credibile e mutevole, in cui i personaggi si muovono cambiando pelle all’interno della simulazione, ma mantenendo la propria identità più pura. Fukunaga, partendo dall’originale serie norvegese, struttura la sua miniserie giocando con astuzia sulla creazione di un mondo futuro che ci risulta già familiare, a tratti quasi passato. Il look retrofuturista della tecnologia, dai monitor anni 80 all’utilizzo di macro-dispositivi contrapposto all’uso della miniaturizzazione attuale, crea una dissonanza avvincente e affascinante, che ci lascia la sensazione di un mondo distopico che possiamo percepire come reale, possibile.

Maniac appassione per l’ottimo intreccio di varie tematiche, perfettamente bilanciate

Le tematiche affrontate e la variabilità delle ambientazioni, motivate dalla presenza dell’IA Gertie, sono declinate in modo mai banale e sempre emozionante. Dal fantasy al ganster movie, passando per la commedia e la spy story raffinata, questo puzzle di avventure diventa il percorso terapeutico dei protagonisti. Ogni iterazione è uno step in una strada verso la guarigione, scandita in tre passaggi principali, tramite i quali elaborare la propria vita, accettandosi e risolvendosi i tormenti interiori che affliggono i due protagonisti.

Nonostante Emma Stone sia impeccabile come suo solito, ad avermi convinto in modo totale è Jonah Hill. Il suo Owen è stupendo, fragile e complesso come ci aspetterebbe da un uomo del genere, capace di subire tutto passivamente sino al momento di decidere finalmente di dare una svolta alla sua vita. Hill riesce a dipingere su schermo tutte le sfumature del suo personaggio, dal lato comico a quello principalmente drammatico che rende Owen un esser umano straordinario.

La dinamica che si crea tra Hill e Stone è unica. Definirla romantica sarebbe riduttiva, i loro personaggi sono due anime destinate a incontrarsi a sostenersi e spaventarsi per l’importanza che rivestono l’uno per l’altra. Per tutti gli episodi di Maniac i due si inseguono, sostengono, vivono diverse vite ma son sempre destinati a incontrarsi, amarsi.

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Stessa intensità traspare nel racconto secondario dedicato al dottor Mantleray (Justin Theroux), inventore del progetto di cura, costretto a fronteggiare le proprie ansie e paure, divenute centrali quando l’interazione tra pazienti e l’IA Gertie diventano problematiche ed incontrollabili. Esilarante l’entrata in scena della madre di Mantleray (Sally Field) che da vita ad una sequenza emotiva appassionante.

Maniac si rivela una delle produzioni più emozionanti ed affascinanti di Netflix viste finora, andando a porsi al livello di successi come Altered Carbon o Daredevil. Il suo tono così peculiare, unito ad un rispetto dei tempi narrativi netto nonostante la varietà di ambientazioni affrontare da Fukunaga, rende questa miniserie un’esperienza appagante, intensa, capace di far sorridere e di commuovere, grazie ad una colonna sonora suggestiva e in grado di enfatizzare il contesto emotivo.

A rendere Maniac vincente è il finale. Struggente, ansioso e ricolmo di speranza, con una teoria sull’amore devastante e incredibilmente vera, esposta da un Hill incredibilmente espressivo. Mania si addensa in questo attimo, passando dalla paura di amare e perdere al coraggio di mettersi in gioco. La scena finale di Maniac è perfetta, chiude in modo sontuoso la miniserie, lasciando quella piacevole sensazione che ciò che dovevamo vivere lo abbiamo vissuto in pieno, con la serenità che ciò che ora vivranno Annie e Owen sia giustamente solo loro, finalmente liberi dal passato e pronti per un nuovo futuro.